La vicenda in oggetto travalica per interesse il limitato ambito “terapeutico” a cui inerisce. Si vuole infatti qui porre l’accento su un deficit d’attenzione – purtroppo frequente – della Suprema Corte rispetto alle istanze di puntuale rispetto delle norme unionali.

Venendo al caso di specie, va ricordato che il legislatore considera “le prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona” esenti dall’applicazione dell’Iva (art. 10, c. 18 del D.P.R. n.633/1972). Tuttavia, la disposizione introduce una condizione per l’esenzione: le prestazioni devono essere rese nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza ex art. 99 T.U.L.S. (Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265) o individuate attraverso un Decreto Interministeriale del ministro della sanità e di quello delle finanze.

Con la legge finanziaria del 2008 (art. 2, c. 355) il Legislatore da un lato istituiva il registro dei dottori in chiropratica (la cui iscrizione era consentita ai soli laureati magistrali in chiropratica o titolo equivalente) e dall’altro imponeva al Ministero componente l’adozione del relativo regolamento attuativo. Ebbene, in assenza del regolamento attuativo  i chiropratici hanno sempre continuato ad assolvere l’imposta ordinaria sulle prestazioni fatturate ai clienti come imposto dall’ Amministrazione e da gran parte della giurisprudenza di merito e di Cassazione.

Tra le ultime, la sentenza 22 marzo 2019, n. 8145 aveva affermato che aveva rigettato la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia della UE ex art. 267, c. 3, TFUE senza in alcun modo confrontarsi con la giurisprudenza euro-unitaria presente sul punto di diritto e sostenendo che dalle argomentazioni limitate al contesto del diritto italiano sarebbe derivata .Va detto che secondo il consolidato insegnamento della Corte europea la possibilità di un giudice d’ultima istanza (quale è la Corte di Cassazione) di rifiutare la richiesta di rimessione alla Corte UE presuppone che ci si trovi di fronte ad un Acte Clair o ad un Acte Eclairé con ciò intendendosi – in sintesi – che la disciplina comunitaria non sia bisognevole di interpretazione o che l’interpretazione sia già stata fornita dalla stessa Corte europea in casi assimilabili a quello oggetto di causa.

Orbene, si può ben dire – ci pare – che nel caso deciso nel 2019 tali condizioni proprio non esistevano se solo si considera che  la Corte di Giustizia già nelle sentenze 27 aprile 2006 Solleveld e  Van den Hout-van Eijnsbergen, C-443 e 444/04, aveva stabilito che se è vero che gli Stati membri dispongono del potere discrezionale di definire le professioni paramediche e le prestazioni mediche attinenti a tali professioni ai fini dell’esenzione Iva, è necessario che l’esclusione di una determinata professione o di un’attività medica dalla definizione delle professioni paramediche, adottata dalla normativa nazionale, sia giustificata sulla scorta di parametri oggettivi quali le qualifiche professionali dei prestatori delle cure e la qualità delle prestazioni fornite dal professionista; ciò in quanto il principio di neutralità fiscale in ambito Iva osta a che prestazioni di servizi di uno stesso tipo, che si trovano quindi in concorrenza tra di loro, siano trattate in maniera diversa sotto il profilo dell’Iva (sul punto, si veda p.ti 37 e ss.). Già sulla scorta di questa pronunce quindi, si poteva dubitare della bontà di quell’orientamento dei giudici di legittimità che escludeva categoricamente dall’esenzione Iva le prestazioni dei chiropratici in forza della mancata adozione del relativo regolamento attuativo.

La situazione è ulteriormente cambiata  con la sentenza Belgisch Syndicaat van Chiropraxie del 27 giugno 2019, C-597/17, p.to 27, in cui la Corte di Giustizia ha affermato esplicitamente che “Anche se spetta agli Stati membri verificare che i prestatori di cure mediche interessati possiedano le qualifiche professionali a tal fine necessarie […], tale obbligo non implica necessariamente che detti prestatori esercitino una professione disciplinata dalla normativa dello Stato membro interessato, in quanto possono essere prese in considerazione altre efficaci modalità di controllo delle loro qualifiche professionali, in funzione dell’organizzazione delle professioni mediche e paramediche in tale Stato membro”.

Muovendo da questa pronuncia della CGUE e dall’esigenza di garantire il rispetto del principio di neutralità Iva la Cassazione, con la sentenza in commento 2 ottobre 2020, n. 21108, apre definitivamente all’esenzione Iva delle prestazioni alla persona rese dai chiropratici indipendentemente dall’adozione del relativo regolamento attuativo e, nel sancire “quel che importa, dunque, è che le prestazioni sanitarie alla persona presentino un livello di qualità sufficiente” e stabilendo che “occorre quindi verificare, anzitutto che le prestazioni rese dal contribuente fossero di natura sanitaria, nell’accezione sopra indicata; inoltre, anche in mancanza di regolamentazione della professione di chiropratico all’epoca dei fatti, che il contribuente fosse munito di formazione somministrata da istituti d’insegnamento riconosciuti dallo Stato e che l’attività sia qualitativamente sufficiente ad offrire la cura della persona”.

La vicenda, come si diceva in premessa, dimostra che anche presso il massimo Collegio si verificano delle violazioni del diritto dell’Unione. Ebbene, va ricordato che tali situazioni – tanto più gravi perché incidono sul diritto del contribuente con una pronuncia definitiva e non più impugnabile – non sono di per sé senza rimedio poiché nelle ipotesi limite l’ordinamento consente di attivare un’azione civile ai sensi dell’art. 2, c. 3bis, della L. 27 febbraio 2015, n. 18 (cd. Legge Vassalli).